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di Giuseppe Possa

Venerdì 2 giugno 2023, al Centro Culturale Vecchio Municipio di Santa Maria Maggiore (VB) è stata inaugurata la mostra “Umori e colori di Vigezzo (e di questo mondaccio fin dall’inizio mal combinato)” un tributo allo scrittore Benito Mazzi (morto un anno fa) e al pittore Antonio Gennari (nel centenario della nascita). Uno con la penna e l’altro con il pennello hanno “cantato” l’esistenza di uno stupendo territorio montano, come l’Ossola, in particolare la Valle Vigezzo.
<<Doppio anniversario – ha introdotto il sindaco Claudio Cottini – quello ricordato da questa mostra: uno felice la nascita di Antonio Gennari a Buttogno, nel 1923  e l’atro che ancora brucia – la morte di Benito Mazzi, avvenuta lo scorso anno… Due personalità molte diverse, due universi mentali abitati da esperienze differenti, ma avevano spazi di vita e orizzonte comuni: conoscere l’uomo, con tutte le sfumature del suo animo, indagarlo fino in fondo, senza chiudere gli occhi davanti alle miserie, all’impudicizia, alla disonestà, e farlo partendo da un piccolo territorio, dai suoi abitanti>>. Bruno Testori ha poi ricordato alcuni episodi piacevoli dei due personaggi, dei quali era amico. La mostra è stata allestita, con impegno e competenza, dalla curatrice Monica Mattei.

L’esposizione, organizzata dal Comune con il sostegno della Compagnia S. Paolo (l’evento rientra nell’ambito delle iniziative per celebrare i 100 anni della Ferrovia Vigezzina-Centovalli), sarà visitabile fino al 25 giugno sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18; dal 1 luglio al 3 settembre dal martedì alla domenica dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18; dal 9 settembre al 26 novembre sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18. Ingresso a offerta libera.

Voglio qui ricordare questi due personaggi della nostra cultura, due amici, che molto hanno dato con le loro opere alla Valle Vigezzo, all’Ossola e non solo.
Di Benito Mazzi ho già scritto in occasione della morte, avvenuta il 24 aprile 2022 (per leggere cliccare sul link):
https://pqlascintilla.wordpress.com/2022/04/24/e-morto-benito-mazzi-scrittore-ossolano-tra-epos-e-liende/#more-6648

Antonio Gennari l’ho ricordato in diverse occasioni, ma non sul blog, per cui voglio qui parlare del pittore e delle sue opere.

Antonio Gennari (1923-2002)

Quest’anno 2023 cade il centenario della nascita di Antonio Gennari una delle “voci” più autentiche della pittura ossolana del Novecento, anche se circoscrivere l’artista vigezzino soltanto nell’ambito locale è, a mio parere, limitativo. Infatti, le sue opere possiedono una tensione universale, capace di dare valori collettivi ai singoli personaggi, anche se dietro i loro tratti, le loro fisionomie, si capta l’intera atmosfera di vita delle nostre valli.
La casa editrice Mnàmon di Gilberto Salvi in occasione del decennale della morte aveva pubblicato un catalogo di Gennari. Un catalogo era già stato pubblicato da Grossi di Domodossola nel 1988 e un altro fu dato alle stampe dal Museo del Paesaggio, allora diretto da compianto prof. Gianni Pizzigoni, in occasione dell’antologica che ha dedicato nel 2000 al pittore vigezzino.
Gennari, nato a S. Maria Maggiore nel 1923 e morto a Verbania nel 2002, aveva studiato alla locale Scuola di Belle Arti Rossetti-Valentini e, poi, all’Accademia di Brera a Milano. Riprese l’attività di pittore al ritorno dalla guerra, per la quale era partito volontario ed era stato deportato in Germania. Si sposò nel 1960 ed ebbe una figlia e un figlio. Visse sempre in Valle Vigezzo, quasi appartato, ottenendo comunque, numerosi riconoscimenti. Tra le mostre, oltre a quella di Verbania, sono da ricordare le personali del 1972 a Santa Maria Maggiore e del 1978 a Domodossola e quella postuma a S. Maria Maggiore nel 2012.
Questo singolare artista, dal gusto romantico, ma dal giudizio caustico, quasi dissacratorio – che è stato prima di tutto un “poeta” forte e certamente un po’ visionario – sapeva mettere a nudo, con toni e acidità di giudizi, molti aspetti delle drammatiche contraddizioni del secolo scorso. Oltre l’impegno per dar luminosa sostanza cromatica alle emozioni più intime del vivere, occorre mettere in rilievo le sue acute analisi e le sue denunce appassionate, quasi requisitorie contro l’estrema degenerazione in cui è precipitato l’uomo. Gran parte della produzione di Gennari, infatti, scaturisce da un’esuberante ribellione al conformismo e all’assuefazione catto-borghese, riconoscibile soprattutto nelle rivisitazioni bibliche dei temi, con sullo sfondo i paesaggi della sua valle.
I suoi quadri, basati particolarmente sull’incisività del segno irriverente e provocante, si muovono in atmosfere sarcastiche e oniriche. L’ironia è feroce, poiché dall’ambiguità degli eventi rappresentati, dalle libidiche o sfacciate visioni, emergono un’amarezza e una drammaticità senza via d’uscita.
In questo catalogo-antologia ci sono, comunque, anche immagini d’alta umanità e di poesia: dal sociale al religioso, dalla morte alla vita, dal tragico all’amore. Nelle sue opere, Gennari ha sviscerato la sofferenza, l’ingiustizia, i vizi e le speranze dell’umanità: ne è sbocciato un itinerario espressivo tumultuoso, in taluni casi violento, scioccante.
E’ stato proprio Benito Mazzi a farmelo conoscere nei primi anni Ottanta e a mandarmi ad intervistarlo per il settimanale Eco Risveglio Ossolano, che lo scrittore allora dirigeva.
<<Ho dipinto innanzi tutto per me>>, mi spiegava la prima volta che l’incontrai mentre salivamo a Santa Maria Maggiore, dove possedeva uno studio (abitava a Domodossola), in cui conservava le numerose opere che non aveva mai voluto vendere e che gli avevo chiesto di mostrarmi: <<Ormai, dipingo poco; mi sembra di essere in crisi; mi sento vuoto. Forse, ho fatto il mio tempo>>, concludeva con estrema semplicità, e s’interruppe improvvisamente, come se mi avesse rivelato una parte della sua anima. Uomo solitario, fuori da ogni scuola o corrente, schivo come aveva sempre preferito essere, Gennari non gradiva parlare di sé, non gli piaceva neppure dire cose inutili, forse gli dava fastidio parlare del suo privato. Non insistetti molto, per paura di contrariarlo. Capirò dopo che era il suo discorso artistico la radiografia della propria esistenza.
Dei quadri che aveva venduto mi mostrò le fotografie: contenevano tutti i tasselli del suo lungo e solitario cammino; tutta la coerenza del suo discorso dagli inizi ad allora (ma anche dopo, perché in seguito dipinse poco); dimostrava, comunque, tutta la sicurezza di chi non deve esibire giustificazioni poetiche, storiche, pittoriche, per raccontare le proprie opere. Rifiutava di spiegare se stesso, dichiarando che le parole non servono a nulla e forse allora non capivo il suo grido, la sua sofferenza, i suoi tormenti, le sue gioie, le sue ferite.
Quella volta, per saperne qualcosa di più, fui costretto a interpellare Roberto Cattani, un consulente di gallerie italiane e americane, che era un suo grande estimatore: <<Dirò subito – esordì Cattani – che tracciare un “ritratto” di Gennari non è semplice, in quanto è un personaggio profondo e complesso; dotato di una sensibilità delicata, di una cultura opportuna, di un senso ironico spiccato; attaccato a valori reali e autentici. Pur avendo potuto sfruttare certe occasioni, non ne ha mai approfittato, per restare fedele a se stesso e per non scendere a compromessi di mercato. Tutta la sua ricchezza è dentro al suo animo, raccolta nel suo cervello>>.
– Come giudica l’arte di Gennari? Gli chiesi.
<<La definirei esclusiva, caricaturale, polemica a volte, ma sempre reale, su uno sfondo paesaggistico corrispondente a quello tipico delle nostre valli. Gennari si porta dietro la sua origine montanara e tutta la sua arte nasce dal desiderio, ancora romantico, di un contatto con la natura, ma con vigore dissacratorio e giudizio caustico. Ritengo che si tratti di una pittura interessante>>.
– Lei sig. Cattani, se ricordo bene, fu il primo ad allestire una mostra di Gennari a Domodossola, presso la sua galleria “Spaziodomo”, dove, tra l’altro, a mio parere, sono sempre state presentate mostre culturali di alto livello.
<<Sì, fui il primo e finora l’unico. Era il 1978 (la mostra di Verbania verrà dopo e Cattani fu uno dei curatori – ndr) e ho ancora un vivo ricordo di quella vernice: molti furono gli estimatori che apprezzarono la sua pittura, e non solo italiani. Assai favorevoli, inoltre, furono i critici. Da allora siamo sempre rimasti amici. Purtroppo, nonostante l’interesse che sempre suscitano le sue opere, presso critici, mercanti, collezionisti in genere, da allora non ci furono altre sue esposizioni a Domodossola; anche perchè Gennari – come lei stesso avrà intuito – non ama mettersi in luce. Io mi auguro che in un futuro vicino sia giustamente valorizzato e sia data alla sua pittura la collocazione che merita>>.

LA PITTURA DI GENNARI – Voglio ora, brevemente, esaminare il mondo artistico di Antonio Gennari. Egli va annoverato tra i pittori espressionisti con talune impennate surrealiste, per l’estrema libertà della sua ispirazione e per l’indipendenza assoluta dei suoi interessi culturali; si tratta, in ogni caso, di un “espressionismo” efficace per un intimo e fresco “lirismo” e un evidente senso della solitudine.
In molti suoi quadri si legge l’inquietudine e l’angoscia esistenziale; è da quelle immagini visionarie, apprensive e allucinate – parodie di una società ridicola e crudele – che nascono i conflitti interiori, le ossessioni, le paure; è da quell’agitata massa di morti-viventi – presentata in un’atmosfera di macabra, grottesca e ironica carnevalata – che sorgono le maschere espressive delle debolezze, dei vizi, della stoltezza degli uomini.
La pittura di Gennari sarebbe, però, incompleta, se non fosse stata sorretta da un incrollabile impegno morale: in un mondo d’ingiustizie e di aberrazioni egli si schierava dalla parte degli oppressi, ai quali si sentiva affratellato in un anelito di riscatto. Ecco allora che la sua tematica si arricchiva di prostitute, baroni, clowns, ubriachi, drogati, handicappati, suicidi e tanti altri “vinti”. Personaggi emblematici di un mondo dominato dallo squallore, dell’ingiustizia. Una tragica visione della vita che lo portava a deformare le immagini, scaricando in esse le proprie ribellioni.
Prendiamo, per esempio, i quadri sulle prostitute: la nudità delle loro repellenti flaccidità (così sono raffigurate) denunziano l’abbrutimento del corpo e la sua degradazione a strumento di piacere mercenario. I visi atteggiati in amari ghigni, vere e proprie maschere tragico-grottesche, rivelano il dolore e l’umiliazione per una condizione, a cui la società ha sottoposto la donna.

LETTURA DELLA SUA “CROCIFISSIONE”Leggiamo in breve il quadro qui riprodotto: la <<Crocifissione>>, in cui l’autore distorce completamente l’iconografia tradizionale, per darci un tono di riproduzione teatrale e popolare di schietta e immediata efficacia rappresentativa.
In un paesaggio prettamente vigezzino, all’ora pomeridiana, durante una celebrazione religiosa, viene rievocata la crocifissione di Cristo e dei due ladroni: sullo sfondo il campanile della chiesa locale e una casa, sulla cui balconata si sono stipati alcuni spettatori curiosi. Mentre la banda musicale intona impassibile le sue note, sono distribuite ai presenti carne alla griglia e vino, scatenando così l’euforia di una festa campestre (una “danza” macabra e godereccia che sembra esorcizzare il senso della morte).
Certo l’uomo che con un dito indica i crocifissi attira immediatamente l’attenzione, ma domina la scena solo per un attimo, perché lo sguardo corre immediatamente al suo viso e a quello, simile a maschere, di chi lo attornia. Tutta la gente, nell’indifferenza e nel menefreghismo generale ride del gesto irriverente dell’uomo che dall’alto della scala orina sul compagno che lo segue, provocandone la caduta, o della coppia di amanti che, sulla destra, soddisfa le proprie brame sessuali. Fa da contrasto il ghigno sardonico e furbesco dei religiosi che pensano solo a raccogliere avidamente le elemosine, proprio nel momento in cui Cristo carica su di sé le sofferenze di tutta l’umanità.
Lo sbeffeggio di Gennari (che pare osservare la sequenza della scena dalla ieratica compostezza del chierichetto sulla destra) contro il potere clericale-temporale della Chiesa è spietato, è un capo d’accusa rigorosamente formulato ed egli non può che schierarsi con l’imputato, vittima di una società egoista, soddisfatta dal consumismo sfrenato, cieca.

LETTURA DI UN SUO QUADRO “FOLLE CHE SI CREDE PAPA” – Questo ritratto è stato pubblicato anche sul n. 23 della rivista “Contro-Corrente”, poco dopo la morte di Gennari, per illustrare, l’opera teatrale “La seduta” di Gianni Pre (farsa in due quadri dedicata al divincavalierpresidente”) che l’aveva scelto per la sua singolare quanto sottile attinenza al testo.
Folle che si crede Papa” ha il suo fascino evocativo soprattutto oggi, in cui tutti vogliamo apparire e crederci ciò che non siamo, aiutati in questo anche da chi politicamente ci pilota (e ci manovra), il quale pare davvero convinto di rappresentare in terra colui “che move il sole e l’altre stelle” (nel frattempo sono cambiati i “manovratori”, ma non le “manovre”).
Il quadro raffigura il busto di un anziano ricoverato in manicomio, la cui postura lo fa sognare di essere un pontefice, seduto sulla sedia gestatoria. Lo dimostrano, in un’immagine di forte realismo e d’intensa espressività, le rughe profonde, il naso appuntito, le palpebre socchiuse d’insana concentrazione, la bocca aperta in una smorfia di piacere demente: una mimica facciale che, se non fosse per l’effetto deformato della figura grottesca, caricaturale, sembrerebbe quasi estatica.
Gennari sa poi circondare il matto di un’aura simbolica: il suo sorriso ebete appare di sotto una mitra-tiara fatta di giornale, come i cappelli dei manovali negli anni Cinquanta. Qui però il giornale diventa simbolo di potere (anche se come copricapo assume una valenza ironica) attraverso le scritte ben visibili “Banca”, “Azioni” e, con meno chiarezza, “è tutto sotto controllo”. Infine, avvolto in quel lenzuolo bianco (per il protagonista, anziché camicia di forza, seducente manto sontuoso), il pazzo pare veramente compiaciuto di sedere sul trono pontificio.
Non sembra, in questo ritratto di Gennari, di trovarsi di fronte ad un personaggio teatrale, che per ragioni di copione stia tentando di interpretare, attraverso le espressioni di un volto-maschera, lo stato d’animo di un maniaco. Qui ci troviamo proprio all’interno di una squilibrata energia psicofisica che muove e condiziona il viso di questo folle, il cui sguardo racchiude distorte passioni umane, da curare clinicamente. Il volto “esterno” visibile, diventa, per l’autore, una sonda, una telecamera rivolta all’interno, all’invisibile inconscio, in una freudiana esplorazione e “interpretazione dei sogni”.
Un’opera, questa di Antonio Gennari, non occasionale o ripiegata su se stessa, ma attivamente concepita nella sua essenza di messaggio: ogni possibile riferimento alla realtà contemporanea è, comunque puramente casuale.

 Giuseppe Possa

Faccio qui una lettura più ampia e articolata (apparsa sulla rivista Contro Corrente) de “La crocifissione” di Antonio Gennari che ho pubblicato in sintesi qui sopra.

Il contrasto della crocifissione

Antonio Gennari nella ripresa di questa scena dei vangeli “Crocifissione”, dove il Cristo assurge a simbolo di un’umanità dolente, distorce completamente tutta l’iconografia tradizionale, per darvi un tono di riproduzione teatrale e popolare di schietta e immediata efficacia rappresentativa, ma non popolaresca, perchè sostanziata da sottili ricerche stilistiche.
Se a qualcuno venisse da pensare, per quelle forme sgraziate delle persone, alle ingenue raffigurazioni degli “ex voto”, di cui Vigezzo possiede un ricco scrigno, gli converrà subito notare l’equilibrio degli elementi compositivi, la sapiente articolazione della profondità dello spazio e l’eleganza formale e coloristica di ogni particolare che sollevano, in ultima analisi, il racconto nel clima della più alta evocazione artistica.
In un paesaggio prettamente vigezzino, all’ora pomeridiana, durante una celebrazione religiosa, viene rievocata la crocifissione di Cristo e dei due ladroni: sullo sfondo il campanile della Chiesa e una casa, sulla cui balconata si sono stipati alcuni spettatori curiosi.
Mentre la banda musicale intona impassibile le sue note, vengono distribuite ai presenti carni alla griglia e vino, scatenando così l’euforia di una festa campestre.
Intorno a questo articolato groviglio di membra pulsanti, a questa tumultuante marea di personaggi che affollano la scena, Gennari costruisce il suo dipinto, facendo pesare su quelle figure disumane esclusivamente l’indifferenza di chi considera, l’esistenza, un gioco.
Il senso della morte, infatti, è esorcizzato dalla macabra “danza” che si svolge attorno alla crocifissione: bisogna gioire per essere ancora in vita.
Inoltre, questa boccaccesca accozzaglia di corpi obbedisce ad un’economia particolare cioè al desiderio del godimento e che trova il parallelo nel consumismo sfrenato, uno dei vizi della nostra società.
Il fumo delle carni arrostite che sale lineare, per poi espandersi di colpo, dà un senso di oscurità alla parte del quadro, che pesa sui crocefissi e suggella il fatto storico avvolgendolo di mistero.
Del resto, la tela, in primo piano, presenta una serie di volti-maschera (un’umanità imbestiata ed urlante, folgorante evidenza di tutto ciò che è terrenamente vivo) che sono la contraddizione tra l’uomo e le potenze inconsce che egli stesso evoca, che si risolvono nel ridicolo, nel grottesco, nella follia, nell’impotenza della volontà umana contro l’ingiusta struttura di cui siamo in balia.
Certo l’uomo che con il dito indica i crocifissi attira immediatamente l’attenzione, ma domina la scena solo per un attimo, perchè lo sguardo corre immediatamente al suo viso e a quello di chi lo attornia: maschere saldamente unite al corpo e fuse con esso, e ci si meraviglia che le loro bocche spalancate nell’atto di ridere non si lacerino. Sono questi tipi che valgono sempre, persino fuori dalla storicità che li ha creati, proprio perchè di quella storicità si nutre il loro ritratto.
Il senso dell’opera quindi è il contrasto tra la morte di Cristo, che carica su di sè le sofferenze di tutta l’umanità, e la raccolta avida delle elemosine (notare il ghigno sardonico dei religiosi) con la quale ancora oggi i suoi seguaci ne perpetuano la rappresentazione per sete di dominio e per la loro “dorata” sopravvivenza.
Lo sbeffeggio di Gennari contro il potere clericale-temporale è spietato, è un capo d’accusa rigorosamente formulato ed egli non può che schierarsi con l’imputato (il Cristo crocifisso), vittima della società egoista, soddisfatta di sè, cieca.
In questo contesto di decomposizione morale, il pittore si sente respinto e rassegnato: da qui la sua identificazione con il Cristo, con lui piegato dalle ferite di questo mondo.
Egli trae probabilmente una morale: chi legge il vangelo senza intuire che Gesù è morto contro quelli che oggi lo difendono, semplicemente non sa leggere.
Certo in lui c’è una profonda fede nel Cristo, lo vede uomo prima che Dio, giorno per giorno calpestato, vilipeso, soggetto alle ingiustizie di ogni sorta, crocefisso.
L’artista è aspro, feroce, quando deve frustare le autorità e il malcostume, ma non si lascia commuovere neppure dalla fatica dei poveri, che qui vengono ripresi nel loro colpevole menefreghismo. Essi ridono sguaiati (le risate sono avvolte da colori sfacciati, impetuosi, che si fondono in un’orchestra stridente di armonie) e si presentano sul proscenio sbeffeggianti: sembrano presenze vive, lì dinanzi ai nostri occhi, ma lo sono perchè acquistano la veridicità delle immagini nello specchio.
Altri (sulla sinistra) guardano indifferenti lo spettacolo, attratti forse unicamente dal gesto irriverente dell’uomo che dall’alto della scala orina sul compagno che lo segue, provocandone la caduta; sulla destra, una coppia di amanti con un non so che di morboso (mancanza di rispetto o desiderio improvviso di paradisi perduti?): essi pensano soltanto a soddisfare le loro brame sessuali, tra lo schiamazzo di alcuni giovinastri.
L’unico veramente assorto a contemplare la rappresentazione sacra è il chierichetto sulla destra. È forse nella sua ieratica compostezza (che dovrebbe significare la voce dell’infanzia) che ha voluto raffigurarsi il pittore, per poter riprendere – lui adulto, ma con l’innocenza dei bambini – la sequenza della scena da un punto di vista di crudo, spassionato realismo.
Così egli ha potuto portare la tela a fermentare come un magma lavico: ne è scaturita una visione allucinata. Non solo l’artista ha deformato volutamente la cronaca veristica di cui è testimone, ma ne ha sottolineato anche la crudeltà connessa alla vita.
In ultima istanza, su questa “crocifissione” Antonio Gennari ha imbarcato tutta la caratterizzazione della nostra vita montanara: servendosi poi della critica e della satira vi ha espresso il suo nichilismo, il suo odio per il tradimento della religione autentica, nonchè l’indifferenza carnascialesca del popolo, il suo amore per il Cristo inchiodato proprio da costoro, stigmatizzando così i vizi e le debolezze di noi tutti, esaltando nel paesaggio forse la sola realtà incontaminata: quella della natura.

Giuseppe Possa